Quella di Lillimè e altre storie




IL MAIALE QUADRATO


Nel lontano far west si aggirava furtivo un maiale quadrato.
Si nascondeva fra i cespugli a mangiare bacche selvatiche e usciva solo di notte, quando nessuno poteva notare le sue fattezze spigolose.
La sua famiglia lo aveva abbandonato, spaventata dalle urla lancinanti che levò la madre al momento del parto. Sopravvisse per un pelo di maiale alla venuta al mondo di un cucciolo non solo quadrato nella forma, ma anche duro come il marmo e dalle angolature affilate e taglienti.
“Nostro figlio è nato per ucciderti” – disse il papà preoccupato e in preda ai sensi di colpa alla luce del risultato del suo seme. “Lo chiameremo Destino, perché è al suo destino che lo lasceremo”.
I primi giorni della sua vita li passò nell’enorme pozza di sangue che il suo parto aveva generato. 
Si alimentò delle viscere sparse sulla terra intorno a lui; non si riusciva nemmeno ad alzare. 
Finché un corvo provò a sollevarlo per portarlo nel suo nido, ma lo sforzo sovravolatile 
bastò solo ad erigerlo sulle zampe cubiche posteriori. 
Destino da quel dì non si è più sdraiato: per lui riposare significava trovare l’equilibrio 
per spegnere il cervello ben piantato sulle 4 gambe della sedia che diventava. Immobile, muto, 
con gli occhi spalancati e le palpebre ancora tirate.
Qualcuno che lo amava però c’era, anche se per la sorte avversa non lo aveva mai incontrato. 
Era Beato, il gemellino monovulare. Sbocciato tondo e morbido come un bocciolo di rosa rosa. “Beato lui - disse la mamma ringraziando il padre per averglielo regalato in dono - si vede proprio che è il tuo discendente questo figliuolo”. “Si, diventerà grasso come un vitello e rotolerà dalla cima delle montagne senza farsi alcun male”. Beato era coccolato dalla mattina alla sera, 
esibito come un premio del destino. 
“Beato lui!”, pensavano e dicevamo fra loro tutti i maialini della pianura.
Intanto Destino vegetava fra i fitti vegetali nella speranza che non lo sorprendesse mai al mattino presto il sole. La sua grande paura era rivelare ai genitori che il suo e loro destino incombeva ancora sulle loro vite. Lui che voleva scomparire, lui che continuava invece a crescere e a far spuntare quell’incudine rosa che il suo corpo fuori norma non cessava di generare.
Non era l’unico maiale che prosperava allo stato selvatico: era solito osservare da lontano 
la vita dei suoi dis-simili in libertà. Si rotolavano nel fango per lunghe vie orizzontali. Dormivano luccicandosi al pieno sole. Urlavano al crepuscolo nel riecheggiare della loro forte unione ancestrale.
Eppure Destino non trovava mai la spinta per presentarsi al di fuori, immerso nel ricordo delle urla strazianti della madre, memore del dolore e della vergogna del padre.
Un bel giorno in cui un vorticoso vento alzava polveroni di sabbia utili a coprire, 
se la sentì di passeggiare più vicino al branco di maiali randagi e, in preda all’eccitazione tipica 
del sognatore che per circostanze favorevoli e misteriose si avvicina al fulcro del suo fantasioso 
e improbabile divagare, quasi sfiora un altro giovane maiale. Certo che non lo potesse né vedere né sentire, allungò le corte setole della coda perché erano l’unico punto non ferente da appoggiare. 
Sì, a dirla tutta un po’ grattavano anche loro con quei pelacci folti e duri capaci di pulir via dalla terra secca che rimaneva addosso dopo i bagni di fango di mare.
È che se l’era per una volta sentita, in quel trambusto di tornado di sabbia che saliva come in una pentola a bollire il sale.
La sensazione valse il rischio: in un singolo istante di contatto scoprì il vero segreto della vita 
di un maiale sognatore.
Lui che, radicalmente quadrato, capiva di aver dovuto cercare il modo di diventar tondo, abbandonato dalla famiglia che lui stesso aveva quasi mortalmente ferito come primo atto di vita, sentì, capì, sussultò al percepire – del tutto prima del desiderare - che il suo essere quadrato era la metafora somatizzata fin in superficie del mancato pervenire dal profondo dell’amore.
Lui che non era stato mai amato e di conseguenza non aveva potuto scegliere il suo destino, trovò che procurarsi contatto, scoprendo i modi in cui si poteva - dav vero - fare, lo avrebbe salvato.
Destino corse via dall’uragano che si alzava impetuoso dentro il grande cassetto pieno di slancio che finalmente lo animava.
Pieno di speranza così corse via, finché le unghie rettangolari non si consumarono sul selciato ruvido che sta sotto la pelle del friabile suolo.
Raggiunse la cima della montagna dove nessun maiale sfidò mai di andare. Attraversò le comunità dei lupi, i quali non cercarono di catturare un essere sfrecciante come un vagone di quel treno d’acciaio che aveva sovente falciato le traiettorie storicamente assegnate alle loro battute di caccia di altre fiere.
Una volta in cima alla montagna, decise di buttarsi giù. Convinto dal profondo del cuore rotondo che la fine che lo aspettava avrebbe coinciso con una felice liberazione. La morte che incontra la vita. 
La vita che tocca la morte e un abbraccio che nasce per morire bevendo e mangiando del sangue della terra amica e non solo madre.
Destino si lasciò allora andare al suo destino. E girò, su se stesso e tante di quelle volte che gli sembrò di volare.
Durò un’eternità questa sospirata fine, al punto da parergli più lunga della sua stessa tenera vita. L’intensità che aveva saputo scegliere lo accompagnò fino alla valle non più buia.
Il tempo era limpido e splendente. Non volava un singolo granello.
Tutti i maiali rimasti vivi nella pianura e tutti gli uomini che li guardavano solo per capire quale era il momento giusto per sgozzarli e iniziare a mangiare le loro carni succulenti, grasse, abbondanti e levigate dalla brace dei barbecue… tutti i lupi affascinati dal coraggio di quell’impavido maiale d’acciaio e tutti i corvi che si disinteressavano ai maiali quando diventavano troppo grandi per poter aiutare a vivere i loro cuccioli ancorati all’alto dei nidi tra i fiori… tutti guardammo Beato che si mise dritto-dritto in linea alla discesa del fratello negato. Senza paura, avvolto nei ricordi della vicinanza che la gravidanza insieme aveva loro donato, fermò col suo corpo arrotondato e curato le forme rovinose del fratello più sfortunato.
Un tonfo paralizzò la vita intera, dalla cima della montagna al punto più largo della pianura.
I due gemelli si erano ritrovati. Una bomba di sangue misto terra misto stupore e misto paura scoppiò nel cielo.
Chi si aspettava che ne uscissero due magnifici maiali perfettamente proporzionati: una nuova stirpe che avrebbe saputo riscattare questa specie vessata dagli uomini, dai lupi, dai corvi, sempre e comunque destinata a sprofondare negli abissi del più torbido fango del mare.
Chi si aspettava che ne sarebbe uscito un fiore, solo un fiore… come simbolo di quel maiale pesante come un ingombrante mattone rosa ormai scuro che aveva saputo sfidare la legge gravitazionale. Affinché la poesia sconfiggesse la realtà della vita che sa essere troppo dura, persino nel riservare furbescamente esiti inaspettati che mantengono un senso di riscatto e di possibilità oltre i finali già scritti che si ripetono scandendo le esistenze caduche, mortali e dunque definite.
Non so IO cosa ne è uscito dall’incontro scontro fra  Destino e Beato, fra la morte e la vita. 
Non vorrei deludervi ma io da quella cima non mi sono ancora buttato e non so chi ci potrebbe stare dall’altra parte del folle rotolare.

A volte semplicemente penso a come sono quadrato, penso ai maiali e al dolore intenso che proviamo insieme quando ci chiamano Destino. Beato lui che vive nel regno dei cieli.       



             
OLIVER NON VUOLE MORIRE


Ha morso me giovedì. Ha rimorso domenica. Ci ha riprovato ancora domenica. Oggi è lunedì e lo vedo stanco. Di battersi. Per cosa?
Oliver non lo sa cosa può essere la vita. Tre anni e mezzo. Da quando ha tre mesi a catena. Preso da un maresciallo dei Carabinieri e legato nel retro della caserma. Stessa identica storia di una cagna che ho conosciuto qualcosa come venti anni fa.
Poi il canile. Da poco più di un mese.
Si dice che un canile sia un buon canile se si prende cura dei cani: pappa, vaccinazioni e profilassi varie, carezze e passeggiate tutte le volte che si può.
Si dice poco o nulla cosa c'è di non buono del canile, di ogni canile: reclusione, solitudine, frustrazione, minacce che provengono dai propri simili reclusi, energia inespressa che induce possessività e asocialità, mentre gli umani passano indaffarati davanti a te/cane che sei sempre lì, senza distinguere messaggi invitanti negli odori mischiati, senza comprendere le sfumature dei suoni accalcati e moltiplicati. La confusione cresce e il tempo si avvita nell'attesa di capire. Un assembramento di corpi che spingono per disperdersi più in là. Oltre dove non si può andare.
Che succede. Chi sono. Chi sei. Cosa vuoi. Cosa volete. Aprite. Andate via. Sono tutto e niente. Faccio questo e non so più nulla.
Oliver, pastore bianco dai dred incolti lunghi e sporchi di feci attaccate dietro. Se lo toccavi i primi giorni, non sembrava capire che...
Qualche settimana dopo, mi ha cercato lui, per poi pentirsi quasi subito del
suo slancio emotivo. Una mano aperta piano dal basso verso l'alto in segno di pace, lui che si butta a terra in un attimo fulmineo di presunta felicità perché la disponibilità la vede, poi su di scatto... a provare a mordere seguendo i suoi sentimenti traditi.
Dei cani ha paura. Evita a testa bassa, e se ne va. Delle persone ha paura, e le tiene a sé nel recinto, quando capisce che si sta andando là, per poi andare via. Ti tiene mettendosi davanti alla porta, fin dall'inizio in cui ti ha costretto ad entrare perché altrimenti rimaneva a fare avanti indietro nel corridoio.
Oliver mi sembra a volte che parli con le farfalle, provando ad interpretare quel suo sguardo perso che sintetizza e anima colori dispersi nell'aria rafferma di chi non si può muovere da dov'è. Perché è così e basta e chissà se ha potuto chiederselo mai.
Ieri il suo nome è finito nel referto dell'ospedale, perché a quel braccio si è attaccato come un pesce all'amo che fa male ma almeno lo porta via. Ma, senza correre troppo il rischio di mal interpretare, io lo so cosa Oliver sta cercando in tutti i modi di afferrare.
Succede spesso che arrivano in canile cani che hanno subito tanto e sembrano all'inizio non esistere a sé stessi.
Se li lasci respirare appena un po’, esce l'autonomia. E Oliver brama di poter decidere. Oggi per lui un morso è una decisione e io ora come ora la voglio accettare.
Non dico che sia facile, ma che quell'insicurezza mi tocca dritto al fondo delle motivazioni che mi portano tra le gabbie del canile.
Centinaia di forme diverse di resistenza a cui cercare di connettermi, sapendo di dover passare per quello che in parte sono. Il loro carceriere. Il rappresentante sul campo della specie che li ha fatti soffrire. Colui che prova a dare loro qualcosa che non basta mai, procedendo secondo una precisa e
reiterata suddivisione fra quanti sono. Colui che apre la porta per richiuderla, alla fine. E questo è un fatto che se tengo alla loro felicità vorrei che sapessero non cancellare pur nell'affetto che col vivere la giornata insieme si crea.
Oliver non vuole morire e questo è di gran conforto.
Dico sempre una cosa in canile "Un morso è un morso, nessun affronto ricevuto che sia per noi da personalizzare!".  Lo dico per far scendere il timore dei cani che abbiamo un po’ tutti quando impattano forme di aggressività, perché il timore - se incontrastato - si gonfia facilmente, finché etichetta e condanna. Ma nel frattempo, in altro modo, io personalizzo tutto quello che posso. E devo dire che Oliver ci sta provando a uscire dal nulla in cui è cresciuto. E che io e lui ci troviamo insieme in questo momento buio.
Mentre mi morde io divento qualcosa. Devo resistere al dolore delle sue pinzate decise, facendomi forte del suo vero dolore come d’altronde sta provando a fare lui.
Il dolore va usato.
Così da qualche parte andremo. Si tratta per ora di non mollare.
Sono convinto che Oliver capirà che non abbandonarlo ai suoi tentativi ci porterà lontano.



SARÀ UN CASO...

ma se ci sto pensando forse non lo è.
Stamattina c’è un forte vento e il mondo sembra fermo
a guardare cosa spazza via. I pensieri sono meno legati
e la vita mi sembra più sfuggevole.
Stanotte è morto il mio cane... non ero pronto... non lo sono mai.
Ornella. Sedici anni. Sei con me.
Dieci in un canile lager. Si chiamava Dixy come le patatine.
Io le ho dato un nome nuovo per dimenticare.
Entrata da cucciola l’unico piacere che le era concesso in prigione era il cibo,
sebbene immagino non certo di qualità.
E lei se lo era fatto bastare al punto da costruirci la sua immagine:
27 chili di bassotta incrociata con un pastore tedesco... un vero spasso.
Camminata e sguardo da tracagnotta. Ma anima bella come nessuno,
splendida... leggera.
Stava sempre nel suo angolino, in silenzio,
veloce di occhi... pronta a rigirare ciò che avvertiva fuori...
subito e tutto dentro di sé.
Ha costruito in me una fantastica realtà.
Ora sono qui che cerco di tenere ste cavolo di lacrime
e mi dico: le verità sono tante quante sono le anime della terra.
Le realtà sono quello che nasce quando un essere si affaccia ad un altro.
Sento che sta scappando via la nostra silenziosa realtà
e non trattengo la disperazione. Faccio fatica.
Lo so... aveva tanti anni e passati bene nel suo ultimo terzo.
Lo so... prendo sempre cani vecchi e malaticci
 e devo abituarmi a perderli di continuo.
Lo so... io questo lo so. È che il dolore
 dipende dallo sforzo che sto facendo di calare dentro di me la nostra realtà.
Mia e sua. Quando è fuori la vivi... è lì... a portata di mano.
Ma metterla dentro di sé vuol dire cambiare.
E niente pare più difficile che cambiare.
Vorrei riuscire a prendere un po’ della sua gentilezza e del suo darsi un suo posto.
Combatto con la mia inquietudine perenne e butto giù la mia Ornella.
Sperando col tempo di assomigliarle un po’.
Per me è questo il modo in cui gli animali
continuano a vivere dentro di me, quando si riesce.
Il loro 'paradiso'. Dare loro un posto interiore
e ricordarsi cosa ci hanno mostrato.
Quel canile lager, ma lager davvero, mi fa paura solo a ricordarlo.
Provincia di Milano. 1000 cani e più.
Mura su 4 lati intorno a gruppetti di loro.
Vai a chiedere di vederli per un’adozione
e te ne portan fuori 2 e dicono: scegli.
Ornella non l’avrebbero mai portata fuori.
Per fortuna ero lì come operatore di un altro canile
e dovevo 'ritirare' i cani di un comune
che aveva cambiato convenzione.
L'ho vista... dalla finestrella del suo box.
Stava con 5 altri cani. In un angolo con un’altra vecchietta
- ricordo bene anche lei -  era molto smarrita.
E due pastoroni e due molossi... aria tesa fra loro
persino alla prima e unica vista.
Centro subito il suo guardare timido e intimidito
e mi attraversa subito la particolarità di questa cagnetta
così speciale con questa forma da foca obesa.
Nei giorni dopo in canile mi segue fissa:
sa, come me, che abbiamo un destino comune.
Andiamo a casa e mi parla del silenzio che ha ingoiato
e del silenzio che accompagna - per sempre -
chi ci è passato dalla follia di queste discariche per cani. 
Si dice che i cani sono i più fortunati tra gli animali
perché si tende a pensare agli unici individui
  animali felici che riusciamo a vedere in giro.
Invece sono molto sfortunati a trovarsi così
 a stretto contatto con le persone umane che,
nel loro insieme, non fanno altro che illuderli
senza riuscire a capirli quasi mai.
Giusto l’altro giorno leggevo un annuncio pro-adozione
di un cane che conosco bene. Un annuncio
di un canile 'evoluto'... nei principi, ma purtroppo
non nella conoscenza dei suoi ospiti canini.
Diceva: << Bobby (nome di fantasia)
  vorrebbe restare qui da noi, perché è felice qui.
Ma vogliamo dargli la possibilità di conoscere anche voi>>.
...lodevole volerlo far adottare... ma
non capisco perché ci sentiamo dalla parte
di chi ci ragiona un po’ su e decide di dare una possibilità di uscita.
Noi a questi cani la possibilità l’abbiamo negata
dal momento in cui ci sentiamo meritori
nell’atto stesso in cui li rinchiudiamo.
Io odio i canili.
E ci sto tutto il giorno da vent’anni.
Proprio perché non li posso digerire.
Penso a quante Ornella sono lì
nell’attesa di costruire realtà che non si realizzeranno mai.
E penso a quante ipocrite carezze li sfiorano...
li violano nell'intimità.
E gli anni passano. E le vite volano.
E il vento non scuote abbastanza le fondamenta
di questo mondo fermo.
Sempre troppo uguale.



                                                                                                      10 dicembre 2012


IO LO CHIAMO KUBRIC

Nome: Rufus
età: 7anni
taglia: grande
sesso: maschio
razza: meticcio bracco tigrato
residenza: Gallarate

“Rufus è un meticcio bracco di taglia grande.
Ha circa 7 anni e vive al canile di Gallarate da tanto tempo.
E' dolcissimo, ama stare con le persone,
giocare, fare lunghe passeggiate, ha bisogno di affetto
e ha tanta voglia di coccole. Se hai voglia di conoscerlo, vieni in canile! “ 

Questo era il suo profilo 'cerca adozione'. Era.
Lo conosco da tre anni ormai, ma posso dire
di averlo incontrato davvero solo qualche mese fa.
Rufus era uno di quei cani che quando un collega
in canile all'inizio mi chiedeva "L'hai fatto uscire Rufus?",
io rispondevo "No, adesso lo faccio...".
Perché lo lasciavo spesso per ultimo, se non mi sentivo
emotivamente a posto, o per primo, se disponevo dell'energia adatta
a sentire i cani che reputavo essere i più difficili.
Questo mi è accaduto (ed altre volte mi accade)
perché ho faticato a capirlo. Questo mi accade spesso quando c'è
semplicemente di più da capire (mentre altre volte
c'era da capire ma non l'ho capito mai).
Un giorno Rufus succede che rifila un morsetto a un ragazzo
che lo aveva preso sottobraccio per spostarlo da un diverbio

che stava avvenendo fra box e box con un altro maschione,
e io decido così di prenderlo nel mio settore.
Questo inconveniente mi aveva spinto ad approfondire...
Due giorni che è da me e m'innamoro. C'è chi dice
ancora oggi che non ci si può innamorare fra maschi
e che non ci si può innamorare fra uomini e cani,
ma io e Rufus siamo l'ennesima dimostrazione
che si può fare entrambe le cose... e pure tutte due insieme!
Bello...come nessuno... 'Gattone' lo soprannominai
quell'esemplare da quaranta chili (fra me e me intendo,
cerco di non far circolare soprannomi troppo mieolosi al di fuori di me).
Una specie di incrocio bracco-alano,
o un cucciolo di dinosauro, o un molossoide con la sindrome del gigantismo,
o un cavallo nano... insomma... un animale della fantasia.
Tanto era bello lui...e affettuoso come pochi.
Sapeva giocare, incupirsi, guardarti negli occhi
come fanno nel loro linguaggio gli umani,
scodinzolare alle femmine che gli piacevano
- come gli piaceva la mia Ivy poi...-
e rispettare le distanze che gli venivano chieste;
sapeva fare la lotta e sapeva strusciarsi.
Sapeva aspettare il suo turno nello sgambamento
e minacciare Giallo - il cane davanti al suo box -
o Pit o Attila o Ursus o York... insomma... sapeva esprimere
la forza d'animo di cui disponeva ad ogni possibile rivale di territorio
che la vita gli aveva messo a così stretto contatto invece...
come 'quasi' fosse una normalità.
Non sapeva salire sulla macchina
e non sapeva attendere con calma la ciotola del cibo (tanto gli importava!),
non sapeva non pisciare sull'angolo destro del bancale,
non sapeva non saltare in alto quando andavi ad aprirgli la porta
del recinto per il rientro, così come non sapeva non fiondarvici dentro all'uscita mattutina.
Non sapeva perché era lì, in canile, dal 2007. 
Oggi una volontaria mi ha detto "La vita va avanti Davide,
anche se non è giusto.
Io c'ero quando è arrivato cinque anni fa, e non è giusto".
La vita va avanti, l'ho pensato anche io.
Oggi era l'inizio del turno... ancora tutto da fare.
Che ti arriva la notizia 'mattone in testa'.
Così, dritta e rettangolare come un mattone,
che sia in testa o adagiato a terra non cambia nulla.
Rufus è morto. Come quella bambina che ho sentito ieri.
Mi si serrano i denti.
Ho sentito e una volta basta. Non voglio più risentire.
Nessuno e niente. Devo lavorare.
Dare le terapie e le pappe. Pulire i box, ecc...
È appena arrivato un signore che ho conosciuto la settimana scorsa.
È anziano. Settantadue anni mi dice oggi.
Piangeva come sette giorni fa. Gli era morta la coniglia.
Stavo per dire coniglio (a questi animali non riconosciamo spesso
neanche di avere un sesso specifico tanto siamo abituati ad
associarli al cibo). Gli offro un caffè e gli ripeto che mi dispiace.
Lui non sa che è successo a Rufus e mi ringrazia
 come ringrazia uno che si concede la legittima solitudine del lutto.
Il lutto? Io devo lavorare... Chiedo a Edo
di portare nel box rimasto libero Rosamunda - l'ho chiamata così
la rottweiler entrata due settimane fa -.
Siamo in catena di montaggio qui o no? Avanti un altro! (come recita sarcasticamente il titolo della trasmissione
che mio figlio vede con la mia fidanzata).
È la vita... avanti un altro!! Tutto si sostituisce.
Amori che vanno e vengono, amici che ci si dimentica pure il nome,
volontari che si stufano o non ce la fanno semplicemente più.
Capisco tutto. I cani vanno via di sovente.Vivono dieci-quindici anni e via.
"Meglio così... con tutti quelli che ci sono già

sai come sarebbero altrimenti pieni i canili..." ,
ho sentito dire una volta da uno. E come dargli torto da una parte,
ma come è possibile che sia meglio così.
Mentre sbrigo tutte le mie solite faccende in canile
 vedo più chiara l'assurdità della vita: vedo il cong proprio di Rufus.
Sapete cos'è? E' un affare di plastica dura che i cani non riescono a rompere,
che presenta una concavità dove vi ci si mette il cibo per i cani.
Ma loro non riescono a prenderlo facilmente,
quindi sono costretti ad ingegnarsi.
Si fa leva sulla volontà di arrivare al cibo per portarli a svolgere un'attività.
"Così non si annoiano...", ho sentito dire.
"E' un po’ come se ti regalassero il cubo di Kubric".
Ma io lo odio il cubo di Kubric. Sono di quelli
che staccano ancora i quadratini colorati per vederne la fine.
Eppure ho accettato questi piccoli stratagemmi per passare il tempo in canile.
 La situazione d’altronde è questa qua.
Si tratta di accettare la mancanza di libertà
e cosa c'è di più emblematico di questo passaggio esistenziale
se non il cong per cani!! Avere da mangiare
senza riuscire a mangiare come si vorrebbe è l'essenza del canile.
Modulare la passeggiata in un piccolo spazio di mondo
è il compito che nella vita in fondo ci diamo anche a noi – noi umani
che ci diciamo 'padroni'. Rufus.
Una dilatazione unita ad un brutto tumore la sua causa.
E' tutto il pomeriggio che mi sfogo sulle cause
senza pensare nemmeno un attimo
 che la cosa possa giovare al mio dolore misto rabbia.
Perché lo so che non gioverà? Perché non ce l'ho con le veterinarie,
né con nessuno dell'associazione.
Ce l'ho sempre con lo stesso incubo in cui vivo. Il canile.
Non il mio né il tuo. Il loro. Il canile in sé
e la sua maledetta funzione di interscambiabilità sociale.
Continuo a ripetermi da vent'anni ormai. 
Beati voi che non mi vivete accanto. Rufus libero!!!!!!
Così lo volevo.
Mi ero ripromesso di riuscire a farlo adottare come Buk.
E abbiamo anche sfiorato il risultato in questi ultimi mesi
che ci siamo di più accorti di lui e di tutti i suoi saperi
finalizzati all'adozione del cuore...
Uno dei messaggi di cordoglio ricevuti a raffica al cellulare
è stato "Rufus ora sarà finalmente libero nel cielo dei cagnolini".
Con tutto il rispetto, io in quel momento di ira verso l'universo terreno
figurati se mi aspetto qualcosa dai piani alti
che da là non si è mai fatto vedere nessuno per Rufus e tutti gli altri.
Chiedo scusa se non ho accolto questo pensiero gentile,
ma sono uno che come i cani fiuta solo gli odori
che emanano le lacrime e il sudore, misto sangue feci e urine.
Insomma, sono qua.
Come tutti quelli che hanno voluto bene a Rufus,
a ricordare l'ultima carezza e l'ultima corsetta insieme.
Ora ho scritto un pensiero per lui
solo per condividere con voi una breve sosta
di questo lavoro incessante che è la vita,
perché chi sa soffrire per gli animali credo che ne abbia tanto  bisogno.
Vivere tra la prigione e il cimitero non è facile
nemmeno per chi ci si aggira libero, perché la libertà
in parte è movimento fisico... ma in parte è movimento emotivo.
E noi siamo rimasti qui inchiodati alla speranza che Rufus trovasse un posto
fuori dalle otto mura... sebbene non succederà mai.
Come ad essere realisti pare non succederà mai che riusciremo
a far capire alla gente che gli animali non devono essere trattati da inferiori.
Resta che amavo Rufus
soprattutto per le cose che non sapeva fare.


                         
TRA DESIDERIO E LIMITE

In un mondo tutto imbiancato, due fra due milioni di esseri ovali in bianco e nero si scontrarono scendendo da due dune oppostamente ubicate, procedendo dritti dritti l'una contro l'altro in scivolata.
Per il doppio colpo preso la testa iniziò loro a dar subito di matto.
Cominciarono così a dare nomi a raffica all'ocuro mondo conosciuto.
<<Il mondo lo chiameremo Tutto>> – disse l'una. <<E noi ci diremo Pinguini>> -disse l'altro.
<<E tu, che sei finita con la A ti chiamo Fortuna>>. <<Tu con la O, piuttosto, ti chiamo Fato>>. <<Quegli enormi cocciuti spaparanzati marroni invece sono i Trichechi>>, <<e quella massa nera che emerge dal mondo sconsciuto a mostrar i denti affilati sarà l'Orca, l'Orca assassina>>.
Insomma, si trovarono molto bene l'una con l'altro nel determinare le cose, divertendosi assai nel capire di capire chi è cosa, chi fa chè, chi altro poteva fare e che significato aveva l'aver dovuto. Questo occuparsi dettagliataamente di tutti e di sè lo chiamarono presto Amore.
Altri pinguini, si diceva, camminavan goffamente e scivolavan alacremente su e già dalle bianche banchine. Finchè, dopo tanto osservare imitare e criticare, si accorsero di che facevano quando si andavan nudi ad imboscare. Due ovette ovali spuntarono dal sotto manto del loro vivo e ardito e delicato sperimentare.
<<Tu andrai a caccia a procurar loro cibo>>, decise primo lui.
<<E tu li coverai fino alla schiusa>>, decretò di risposta lei.
Decisero così insieme attribuendo un valore all'unA e un valore all'Uno copiato pari pari dalle abitudini degli altri traballanti ovali.
Fortuna si addentrò nel mare ad inseguir pesci disposti in banchi allineati e al contempo progressivamente irregolari.
Fato si posizionò in attesa, che lei tornasse e che le uova conservate rivelassero anche i loro nomi.
Un bel mattino, dal loro caldino, sbucò il più sveglio pinguino. Era intraprendente, zampettava come un tenente...un due e tre quattro fin saltando a sei. <<Tu chi sei?>> - disse emozionato Fato. <<Desiderio sarà il tuo nome>>. Una canzone gli dedicò fin quando presto un giorno lui -povero- annegò. Desiderio amava la musica, la sinfonia profonda che veniva su dal mare. Il fatto è che, senza saper nuotare, di troppo si allontanò e, così, cascò dove il ghiaccio era terminato.
Nell'oblio andato dove si spera men che si dispera.
Mai ritornò.
Fato stette così maleche gravemente si ammalò.
Il secondo ovo un bel pò dopo infatti era uscito. Un pinguino un troppetto scolorito che si vergognava di farsi vedere in giro. A stretto tiro da Fato trito e ritrito restò, aspettando Fortuna che nel frattempo -trionfale- arrivò.
<<Che ne è successo delle due uova che allevavi?>>
<<Una mica -confessa- la sperperavi?>> <<Io che ho solcato i fondali di mille e 999 mari per provvedere al loro e al nostro futuro!>>.
E riversati chili di budella di pesci morti ai piedi dell'unico pinguino, lui per paura non le venne nemmeno un minimo interessato lì vicino.
<<Tè ti chiamo Limite, perchè subito ho notato quanto eri, sei e sarai per sempre limitato>>.
Fato era molto triste, sua caratteristica -d'altrone- da dopo non molto ch'era a sua volta nato.
Un ricordo in particolare lo assillava: l'esser stato vittima designata del gioco vizioso di un orgia di trichechi infoiati. E' cosa nota, dai pinguini s'intende, che i trichechi spesso e volentieri si diverton a trapanargli i sederi.
Fato da quel giorno si era creduto una creatura nè sofficientemente molle nè abbastanza dura.
Era felice fosse lui toccato curar i promessi pulcini.
Così come Fortuna era contenta di aver goduto nell'inseguir sott'acqua la sua luna.
Fatto sta che Fato, nonostante tutto, era ancora parecchio innamorato. Eppur, dopo il fallimento perpetrato, temeva di aver deluso quella sua quasi ex pinguina tanto affascinante quanto sbarazzina. Era lei ad aver esaltato quel romanticismo che da solo lo aveva esasperato, offrendogli l'impareggiabile possibilità di vivere il suo ideale nell'universo materiale.
Quella possibilità era -pur-in-certo- fosse ormai svanita, infatti fu lasciato in quanto irrisolvibilmente disperato.
Fortuna, beata lei davvero, s'innamorò presto veramente ancora. In tuffo di testa e pancia dentro alla vita. Alla ricerca di qualcuno e qualcosa che il cuore le facesse scintillare.
Limite, dal muto e fermo canto suo, fu anch'egli male predestinato. A furia -si fa per dire- di star fermo quasi immobilizzato, fu individuato dall'Orca che si definiva Raccoglitrice.
Anch'essa fattrice lanciò con un sol colpo di muso Limite oltre la linea più alta del cielo, verso l'siolotto dov'era aquattato il suo cucciolotto affamato.
Limite fu inghiottito come uno spavento di fronte a un botto.
Allorchè Fato si trascinava malconcio verso la malinconia più nera.
Un dì, una sera, si sedette stanco al limite di una ripida scogliera, in preda al desiderio di esser ancora padre e sta volta pure madre.
Stette seduto a pensare per mesi e mesi d'inverni interi. Finchè dagli sfinteri sfilò sguisciante fuori una tenera anguilla bambina.
<<Devo aver perso la mammina, non credo sia stato tu quello a cui devo desser finita quaggiù. Sarò piccina, ma non son mica scema>>.
<<Stai tranguilla: on importa mio tesoro. Sono io che ti ho tenuto al caldo e all'oro.>>
<<Sei così scintillante che ho capito ora dove si sono impressi tutti i colori del mio agognato arcobaleno>>.
<<D'amore ora son pieno chè in te vedo l'incontro tra il mio futuro e il mio passato, tra la tempesta inghiottitrice e il coltivato sereno. Fra l'adorato Desiderio, il figlio mio più esagerato, e il Limite trasognato, quel figlio mio che l'altro -e viceversa- in sè non hanno -e abbiam- mai incontrato>>.


<<<<Ti chiamerò Possibilità.>>>>


Don e Chisciotte (de la técnica)

Da sinistra: Don, meticcio rossiccio, orecchie a triangolo abbassate, adulto, intero (seppur abitante del mondo stratificato) cioè non castrato, non vaccinato, MA microchippato, socievole con cani e umani… non cerca adozione alcuna. A fianco Chisciotte: meticcia rossa e bianca, orecchie a punta, intera, non vaccinata, MA chippata, socievole con cani e umani socievoli con lei… non in cerca di adozione. Grazie! Occupata una zattera abbandonata tra le mangrovie dell’isola di Laggashift, virano verso l’Occidente in ricerca di...un bel... niente di più niente di meno, cani come loro. Hanno un messaggio da portare contro i padroni dei cani e ci tengono a farlo di persona: “La libertà è uno dei doni più preziosi: i tesori tutti che si trovano in terra o che stanno ricoperti dal mare non le si possono agguagliare: e per la libertà si può avventurare la vita, quando per lo contrario la schiavitù è il peggior male che possa arrivare.” Erroneamente si crede che i randagi si dividan in due categorie: gli assalitori (per loro c’è il canile), i fuggitivi (per loro c’è l’accalappiacani, e poi il canile). Chissà se la prigione potrà trasformarli in aspiranti buoni cittadini… Don: “Ritirarsi non è scappare, e restare non è un'azione saggia, quando c'è più ragione di temere che di sperare. Non c'è saggezza nell'attesa quando il pericolo è più grande della speranza ed è compito del saggio conservare le proprie forze per il domani e non rischiare tutto in un giorno. ”Chisciotte: “Ma che domani sia domani, perché nel mondo non c'è che due razze: quella di chi ha e quella di chi non ha.” I protagonisti della nostra vicenda sono incroci di hidalgo spagnolo mescolato a cazzo e figa di cane, morbosamente appassionati di romanzi cavallereschi. Le letture li hanno condizionati a tal punto da trascinarli in un mondo fantastico, nel quale si convincono di essere chiamati a diventare cavalieri erranti. Si mettono quindi in viaggio, come gli eroi dei romanzi, per difendere i deboli e riparare i torti. Purtroppo per Don e Chisciotte, il mondo del loro tempo non è quello della cavalleria e nemmeno quella dei romanzi picareschi, e per i nostri eroi le avventure sono scarse e destinate inesorabilmente a fallire. Come per tutti noi e non noi. La loro visionaria ostinazione li spinge però a leggere la realtà con altri occhi. Inizieranno quindi a scambiare i mulini a vento con giganti dalle braccia rotanti, i burattini con demoni, le greggi di pecore con gli eserciti arabi che sottomisero la Spagna al loro dominio fin al 1492 (anno in cui si scoprì la Super-potente America)? Combatteranno questi avversari sia presenti che immaginari risultando sempre sonoramente sconfitti, e suscitando l'ilarità delle persone che assistono a gesta giudicate folli. Eppur un giorno, di fronte a me, si verificò un incontro strano come tutti gli altri e per questo degno di esser ricordato. Don e Chisciotte ricevettero l’invito a visitare quella che descrivevano, alcuni, essere una delle area cani meglio frequentate di Milano :>. Gente tranquilla, che lavorava…là dove c’era l’erba ora c’è…una città… Presto fu detto che ci andaron insieme…e la cosa è andata più o meno così.
Don e Chisciotte entran nel recinto insieme e si sedion poco dopo il cancelletto d’ingresso, lasciandoselo alle spalle come se fosse un muro. La percezione di un gruppo di cani a sé abituali crea sempre un certo impatto a chi, forestiero, si trova in un momento -che è sempre uno- ad entrare. La ventina di cani dell’area cani si dimostra interessata, concedendo le distanze necessarie a far sì che i due sentissero di potersi sedere. Eppure l’attenzione rimane concentrata su chi fossero e cos’avessero da dire. Riflettori. Han il fare di chi si fa portatore di una battaglia diversa dalla loro. Comincia a presentarsi Don, colui che dei due sentiva di poter fornire le giuste prove di fiducia. Per lui qualche annusata da lontano, coi tartufi proiettati che violan le distanze via-via da accorciare. Poi si alza lei, e si mette inaspettatamente a saltellare. Sembra pensare di esser finita in mezzo a cani un po' malati e un po' dottori perché l’aria è scanzonata e la lingua non fuoriesce nell’esprimer disagio o nel timore di esser tagliata, analizzata, sezionata, ingurgitata. Chi lo sa? Sa il fatto suo... Giringira per qualche intenso minutino, finché un canino, scodinzolando, le fa capire che a lei, al suo vissuto, per bene ci sta pensando.. Allor lei si applica nel scendere di più nei suoi pensieri remoti, ma un altro cane ci si misura fisicamente, le mostra i muscoletti e poggia la testa sul dorso giù a tenere, convinto che stia facendo troppo in fretta a generar pareri. Si carica a modo suo la situazione. Vuole che Chisciotte si spieghi al gruppo in 30 secondi veloci e leggeri; lei si rifiuta e si spezzetta, facendo intender che per spiegarsi le servon almeno ore, se non mesi, anni e anni, pesanti ed intieri. Qualcuno un poco s’irrigidisce, come avvien quando non c’è più tempo e spazio mentale per marcare e disseminare le proprie pisce. Più di uno spezza la possibile frizione, urtando il fianco del cane che ha rischiato di far partir il rissone. Di lei s'apprezza la forza del star nel mezzo senza finir a pancia all’aria e al contempo senza far quella che sa solo darsi aria. E' una che a salir sui trabicoli si è impegnata...S'abbozza qualche inchino giocoso per misurar la capacità di sorriso di Chisciotte e dell’amico Don, apparentemente il meno riottoso (apparentemente, perché quando s’incazza il cane più misurato... la perdita del controllo è quasi assicuratoo). Ecco cosa i due cani nuovi han da dire, qual’era il loro piano: lei ci vuol salvare e lui non ci vuol far scappare…perché lei ci possa far saltare! I due san recitare siparietti in cui rimpallano i propri pregi e i propri difetti. Alzate di orecchie, di labbra a scoprir appena denti e code in movimento. Per un mondo lento e bello se attaccato, perché accelerare, senza l'idea di doversi anche fermare, porta sempre e per forza a confuso litigare. Soggetto e relazione, ecco i punti cardini del mondo dei cani. Tenerli insieme. Saltare per atterrare. Che vi crediate umani, siete tutt’altro che i nostri padroni :> Era tutto vero: giurerei ... ch'era tutto vero. Convinverci. Al saper morire, nel saper giocare.
“Sarà un piccolo gruppo di ibridi uomini/animali/macchine a cAmbiare il mondo……………> 
A ognuno il suo pezzettino, intero. 
Io credo di aver digerito bene il boccone amaro gettato qualche settimana fa in area cani. Mi è tornato il piacere. 


“MA TU CI CREDI ANCORA?”
di Davide Majocchi


Eravamo felici. Dopo tanti anni di canile lager, dopo due anni da noi - presso la casa /famiglia Lunacorre - finalmente l'occasione di Whisky.
Due amiche vengono a trovarci perché vogliono adottare un cane. Gli proponiamo Asch, uno dei piccoli abbandonati nel bosco; ma Whisky si mette in mezzo. Non lo fa mai. Le piacciono, pare proprio. Si fa accarezzare un po’ ed entra così nei loro pensieri. 
Il giorno dopo ci chiamano: lo vogliono. Io e Rebecca avevamo avuto la stessa impressione di sintonia la sera della loro visita. Brindiamo... con Whisky!
Iniziamo il percorso dell'adozione: prima loro da noi, poi noi da loro... all'area cani, nelle zone intorno alla loro abitazione. Sempre al guinzaglio ma fiduciosi perchè Whisky ce lo siamo portati dietro due anni... in città, in vacanza, ovunque. E' stato il nostro cane 'da spostamento'... perchè in casa non poteva stare che Coda, l'altro maschio, non lo accettava purtroppo. Va d'accordo con quasi tutti, ma Whisky no. Non c'era niente da fare. Allora Whisky stava nel grosso giardino fuori, con a disposizione ottanta metri di locale riscaldato... ma non ancora persone tutte per lui... come ci chiedeva sempre...
Per quanto legati ci sembrava giusto dargli questa possibilità: due amiche di vecchia data, dai modi gentili, spesso a casa, con esperienza di cani. Contatti da poter tenere stretti e, per giunta, residenti nella zona di Milano dove son cresciuto. L'anno scorso nella traversa a fianco abbiam fatto adottare Nausica (una povera boxer scheletrica sequestrata alla Ghezzi).
Ad un certo punto ci siamo; prendiamo un collare nuovo con una maniglia che faciliti il suo avvicinamento, facciamo già stampare medaglietta con numero loro e nostro, portiamo pappe che gradisce. Giunge l'ora di dividerci: sempre un momento strano perchè tanto impari ad amarli tanto devi riuscire a trasmettere questo sentimento a nuove persone che si cureranno di loro. Ho imparato nel tempo a vivere così, con questo obiettivo 'lungo', anche i legami coi cani in canile. Un buon canile si dimostra tale nelle buone e frequenti adozioni, l'espletamento della sua vera funzione. Io che ho facilità a stringere rapporti di simbiosi coi cani, compio sempre più lo sforzo di condizionare il nostro rapporto verso una finalità che riguarda terzi. Un tempo mi comportavo come fossero tutti "cani miei"...e sbagliavo. Che difficoltà che riscontravo poi nel 'triangolare' ai richiedenti affido. Eppure a pensarci era normale: soggetti che avevano sofferto trovavano in me sicurezza emotiva sebbene non potessi portarli tutti a casa con me. Io ci soffrivo (non a caso abbiamo fondato una casa/famiglia piena di cani poi :>), ma faticavo a capire come poter essere oltre che loro amico, custode del loro futuro. 
(...)
Abbiamo scelto così per Whisky. Dirsi ora, dopo tutto quello che vi sto raccontando, se abbiamo sbagliato ha poco senso. Anche questo ci hanno detto. Io ho risposto, nel silenzio assoluto che gira lo sguardo, che solo noi sappiamo come e perché tutto è successo.
Whisky succede che scappa alla prima passeggiata. Un cane si avvicina minaccioso, poi neanche troppo ci raccontano... e quel collare che Rebecca aveva affrancato al collo di Whisky ripetutamente e con tanta accuratezza... si sfila dalla sua testa rimanendo appeso al guinzaglio. Whisky si è spaventato, cogliendo l'occasione di correre via. Ora dico per cercarci.
Ha corso, corso, come la luna corre dentro agli occhi dei cani che la contemplano speranzosamente.
E' un andare senza meta e senza tempo. Chissà dove la speranza porti pace alle nostre dissidenze...
Quando ci arriva la notizia, senza nemmeno guardarci in faccia io e Rebecca usciamo immediatamente. Zitti. Con la testa tesa in avanti che segue già le tracce.
Incontriamo le ragazze e il primo amico accorso per aiutarci. Ci hanno aiutati successivamente in tanti. Colgo l'occasione per ringraziarvi tutti.
Il ragazzo di mia sorella stampa al volo volantini da appendere. Noi cominciamo, determinati a non perder tempo.
Ti assale una tensione indescrivibile nella ricerca: un mix tra disperazione da coprire col fare e una forza data dalla concentrazione di chi sente di dover iniziare una guerra 'giusta'. Per quanto io odi questa parola, guerra, non ne trovo un'altra adatta per testimoniare la determinazione che viene nel passare sopra a qualsiasi cosa si possa interporre fra te e il tuo obiettivo. Forse per questo odio la parola guerra. Eppure ci sentiamo in guerra per Whisky.
Smarrire un tuo caro è un evento che ti sconvolge completamente l'esistenza.
I giorni passano, le segnalazioni prima stentano poi arrivano confuse e sparse. La tensione non cala perchè sappiamo di essere appena all'inizio. Ma il freddo avanza e la stanchezza prova a tirarti indietro per la giacca.
Rebecca non molla mai il campo. Io devo pensare di più a Martino e tutti gli animali a casa che non ne sanno nulla. Ma iniziano a loro misterioso modo a capire che qualcosa di grave è successo. Arrivano anche due cagne dalla Sicilia per cui il volo era già prenotato da giorni. Venere e Angelica avran pensato di essere sbarcate in una piattaforma da cui si sparano missili.
Su e giù. Avanti e indietro. Con le testa lanciata a mille in mille posti contemporaneamente. Chissà quanti altri cani abbiamo seguito invece del nostro obiettivo dichiarato. Una cagnina di certo vaga ancora per la zona Lambrate, da giorni e giorni. Pare non abbia dietro nessuno che la cerchi adeguatamente. Abbiamo pensato di trasformare la pagina facebook di Whisky in una raccolta di segnalazione per lei.
Quanti cani si perdono in queste città. Quanti meno se ne cercano?
Quanti umani si perdono in queste città e quanti meno si cercano?
Sono state tante le telefonate di scherno: chi chiedeva la ricompensa bleffando sul ritrovamento del cane, chi rideva e basta. Chi staccava i volantini dai pali, chi giurava di averlo visto morto. Chi chiamava ma non voleva perder tempo di spiegarti la via dell'avvistamento, chi ti rimproverava di non avergli messo la medaglietta -senza sapere nulla. Chi pretendeva che ingaggiassimo presunti esperti della 'caccia al cane' (che poi magari saran pure più esperti di noi, ma inserire uno sconosciuto in una ricerca che bene o male stai comandando è pure un bel rischio che noi non volevamo correre), chi ti annunciava l'esistenza delle pettorine ("ma davvero?"-pensavo io). Whisky la pettorina da estranei non se la faceva mettere e avevamo pensato che cominciare con eccessive manipolazioni un nuovo rapporto per un cane che ci seguiva in città da due anni senza allontanarsi più di un metro e mezzo fosse sufficiente garanzia che il problema non sarebbe stato lo smarrimento. Ricominciassimo ora gli metteremmo anche un colare a strozzo, più guinzaglio al collare fisso e pettorina ascellare, più una svedese e pure una norvegese e ci inventeremmo pure un modello austriaco. La prossima volta per chiunque altro vi posso giurare che comprerò pure il radio collare e mi documenterò se dovesse esistere un chip con collegamento satellitare da mettergli anch'esso sotto pelle. Come dicevo però questo che sto raccontando è successo. E lo faccio con sincerità anche per evitare che qualcuno, riflettendo a suo modo su tutto quanto, possa commettere gli stessi errori. E' la seconda volta in 23 anni che scappa un cane che affido, su centinaia. E Pandora non l'ho neppure mai ritrovata. Una lupetta nero focata persa da una famiglia di conoscenti di una volontaria del canile di Gallarate un anno giusto fa. La sogno ancora di notte. Offusca ancora la felicità immensa data dal ritrovamento di Whisky.
Concentriamo dopo una settimana le ricerche più nelle ore di sera tarda e mattina presto. Localizzato Whisky più o meno nella zona nord-est di Milano (notare che è partito da sud-ovest!), nascondiamo cibo in giro, mettiamo una cuccia con nostri indumenti usati in un punto che dia ulteriore visibilità alla ricerca, uriniamo in giro...noi e i nostri cani che ci accompagnano (al bar non ci andiamo mai...). Ogni loro tergiversamento nell'annusare a terra è una nuova speranza. Ogni intuizione nuova che ti salta in mente, ogni voce dall'altra parte del telefono, se complice del nostro sforzo, sono una nuova spinta a continuare.
Una sera, dopo un giorno di assenza di segnalazioni di Whisky, Rebecca mi scrive: "Tu ci credi ancora?", in un momento di scoraggiamento che incontrollato prende.
Io stavo vedendo in tv un film di una storia vera, mentre facevo un paio di ore di compagnia agli altri animali, che raccontava di una madre che perse il figlio negli anni venti. La polizia di Los Angeles gliene riportò un altro di ragazzo di nove anni -non lui- dopo 5 mesi. Lo fece per farsi pubblicità con la stampa, convinti che la madre lo accettasse, sostituendo il suo lutto dato nel frattempo per certo. Lei non lo fece, contestò il dipartimento faccia a faccia e poi davanti a tutti. Fu quindi internata in un istituto psichiatrico, data come pazza-paranoica. Dissero che rifiutava il figlio una volta riapparso. Con lei c'erano altre donne, 'pazze' di altri dolori immensi per quanto incompresi dalla morale dominante.
Un giorno si scopre che il figlio vero era stato rapito da un serial killer di bambini. La comunità americana riconosce la legittimità della denuncia della madre. La quale fu così liberata dal manicomio. Mentre montò lo scandalo, passati anni, ripresero le ricerche del figlio. La madre riprese a vivere, grazie al riacquistare dell'agognata speranza.
La speranza è che la perdita non si materializzi, perché certi dolori non possono essere accolti. Rimangono in te, per mangiarti. Ho abituato chi mi legge a raccontare delle morti dei miei cani. A scrivere di come non riesco ad accettarle. Trovo un modo scrivendovi anche ora per indagare cosa non accetto. Continuo a non farlo. L'intera vita mi pare un tentativo vano di sfuggire ai fatti più tristi. Magari per questa ragione la gente non sa pensare gli animali... per come male sono messi in questa società. 
(...) 
Un giorno ad una cara amica, parlandoci della vita, dissi: "Non penso più Marialina di cambiare il mondo: vorrei solo trovare la maniera per viverlo mantenendo in me e in chi incontro la speranza".
"E' quello che possiamo fare Davide"-lei mi ha detto.
E' quello che possiamo fare. Altro non esiste? . . .
Si tratta di questa guerra in fondo. La guerra di chi non vuole passare sopra a nessuno per inseguire la propria speranza. 
Quale è il nuovo messaggio?
Whisky è con noi!!
Sta bene, ve lo racconto con soddisfazione enorme!! Ha un po’ male a una zampina per il tanto cercarci. 
Ci ha davvero creduto fino in fondo. Gli ho detto nell'orecchio ieri che lo han salvato i gatti e i morti.
Sì, proprio i cosiddetti nemici dei cani e i caduti nella guerra eterna della vita contro la morte.
I gatti perchè si pappava le pappe che lasciavan giù le gattare al cimitero di Sesto S.Givanni! Grazie gattare... una categoria di matte che ho sempre amato... passando...
I morti perchè sono gli unici che non lo han fatto scappare non rincorrendolo.
E poi è arrivata Rebecca. La musa mia e di Whisky...e di Paco e di Zingara e di Timmy e di Lillit la gatta e di Celestina la gallina. Vorrei vedere la loro faccia e tutto il resto del loro corpo cosa manifestarono quando si sono riabbracciati. So che si son corsi incontro. Io li vedo. Se avete letto fin qui, anche voi li vedete.

Whisky è con noi!!


E ancora stentiamo a crederci. 



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MI HANNO APPENA RESTITUITO UNA VITA
  MI HANNO APPENA CHIAMATO " LILLIME' "

DI DAVIDE MAJOCCHI




Lillimè... sì "sono proprio io..."
"Esisto!" - mi è sembrata dirmi questo, questa bellissima cagnina bianca.
I suoi occhi sono stati i primi ad incontrarmi nella mia visita al canile di Melilli più di due mesi fa.
Ero andato come delegato dell'associazione APAR insieme a due volontarie dell'associazione EMi.
Il Comune di questo paese in provincia di Siracusa aveva chiesto una consulenza per la situazione di sovraffollamento della struttura convenzionata.
577 cani divisi a gruppi di 12/15 per box. Uno per femmine e uno per maschi.
Alternati e via così...fino in fondo dove dall'inizio non arriva neanche lo sguardo.
Una fila davanti e una dietro, per centinaia e centinaia di metri.
Nella campagna siracusana un angolo di mondo che diventava il loro, per sempre. Inesorabilmente lì.
Catturati fra le famiglie vaganti di randagi, vengono portati lì. Tutti lì.
Spazi che convergono nelle interminabili conseguenze.
Dove a nessuno nuoce e dove nessuno vede... e sente.
Una specie di sotto tappeto all'aria aperta.
Questo è uno dei centinaia di luoghi di sfogo della legge quadro nazionale 281.
La tanto osannata legge secondo cui un cane può non morire, ma può subire l'ergastolo e in condizioni di assoluto disagio esistenziale.
Lillimè, così l'ho chiamata invertendo le sillabe del nome del Comune dove si trovava, come per invertire le sorti di tutti quei cani orfani di un Dio che non si fa proprio vedere da quelle parti...
(Se qualcuno sa dove sia, lo chiami per favore.)
La famigerata 281.
Lei quella legge non la conosce, ma se la conoscesse avrebbe molto da dire a riguardo.
In Italia si dice che dobbiamo essere soddisfatti che la vita dei cani sia tutelata dal legislatore.
Ma ai cani non si può certo dire soddisfatti che per loro è esclusa solo la morte diretta e non è escluso tutto il resto che fa soffrire... cioè tutto ciò che, mancando, non può rendere la vita degna di essere vissuta.
A Lillimè la vita è stata negata.
Dall'abbandono se è stata mollata per strada e dall'accalappiatura se non è finita in mani amiche che si sarebbero impegnati a ridarle una vita.
Fine della libertà di movimento. Fine di relazioni al di fuori del quadrato. Fine di scegliere dove andare, con chi stare, che fare.
Vittime di un principio, etico forse, ma incompiuto.
Dopo essere stati vittima dell'interesse di ripulire dai cani le città.
Non sto a dire che Lillimè e i suoi fratelli e sorelle cani vorrebbero piuttosto morire, come non sto a dire che vorrebbero comunque e sempre vivere.
Non sono loro, così come loro non sono tutti uguali.
Ma fatemi dire che qualcosa lo riesco a capire pur nella differenza di lingua e di situazione.
L'ho letto negli occhi e nei corpi di Lillimè e in quelli che via via mi si avvicinavano dopo di lei.
L'ho letto e toccato nei cani che frequento da sempre.
Sono un volontario di canile da più di vent'anni ormai.
Ho una casa famiglia per animali abbandonati.
Vivo coi cani con il solo e preciso intento di ascoltarli.
Come loro fanno con me.
Ci provo scombussolandomi l'animo intimamente.
A loro viene sempre meglio che a me.
Mi chiedono di continuo un sacco di cose.
Al punto che identificarli con la fedeltà o l'aggressività mi paiono le più grosse bugie addebitabili loro.
La prima, come potrebbe essere altrimenti, è di uscire dal quadrato.
A volte il recinto è fisico e tutte le volte è mentale.
In entrambi i casi sono delimitazioni prettamente 'umane'.
O più che umane...culturali, o più che culturali generalizzate, sono di alcuni umani che per di più -volta per volta- intrepretano un singolo aspetto di una determinata cultura.
Una cultura che più che un modo di pensare il mondo è un modo per non pensare mai a loro... gli animali.
Qualcosa di così radicato da esser diventato un'ideologia.
Un assunto indiscusso perchè indiscutibile.
Un'ideologia giustificatoria: lo sfruttamento degli animali è un grande affare o un gran piacere o un grande necessità.
Il più delle volte tutte le tre cose insieme...
Lillimè ha due buchi sulla gola.
Significa che l'ha scampata bella.
Perchè quando parte la rissa in canile, in quello stato sovraeccitato dall'impossibilità di mettere in moto la rinuncia al conflitto, è facile che qualcuno ci lasci la pelle.
Chi non ascolta i cani e gli animali tutti, normalmente li chiama bestie proprio perchè arrivano ad ammazzarsi fra loro.
E lo fa di solito mentre li mette nella condizione di non avere altra alternativa.
Uno degli stratagemmi usati per continuare a raccontare certe idiozie è quello di tenere ancor più al coperto che si fanno gli uomini e le donne isolati nelle prigioni. Affinchè non si scopra dove possiamo arrivare 'noi' (un po' guardie e un po' ladri).
E dopo aver adeguatamente coperto il principale e reale motivo sociale che li ha voluti lì, ammassati sotto il tappeto del nulla, in cui il tempo è scandito da una lancetta ferma.
Sto parlando di ingiustizia strutturale della società che quasi scientificamente fa sì che esistano a priori categorie di potenziali rinchiusi ed emarginati.
Sto parlando di uomini, donne e cani ed altri animali non umani.
Se vi stupisce la comunanza riscontrabile nelle opinioni che esprimo incrociando questi destini, io dico che vi sfugge il senso di quello che ci lega fra 'diversi', facendoci dipendere l'uno dall'altro.
Io suggerisco di chiedersi in che posizione ci si trova.
Io l'ho fatto e mi sono accorto di essere nella posizione del privilegiato: maschio, bianco, sano, nato in una paese del mondo sviluppato....appartenente alla specie che nel suo complesso - ma più che altro nella sua nicchia d'avanguardia di potere - si è resa 'padrona' della altre.
Da quando me ne sono accorto cerco di essere meno privilegiato.
E' semplice. Cerco di dimostrare - a me stesso prima di tutto - che posso vivere in altra maniera invece che pesando sulle spalle degli altri.
Mi interrogo su chi sono i miei altri.
Sperimento le possibilità della mia felicità altra.
Provo a pensare quindi, diversamente, agli altri.
All'inizio lo facevo più seguendo un'indole di carattere personale.
Poi ho cercato di farne una questione di consapevolezza sociale.
Ho portato a casa mia Lillimè.
E' la prima adozione dal 2006 (quando aprì il canile di Mellili).
E' la mia grande felicità. Spero diventi anche la sua.
La seconda sarà trovare per lei una nuova amorevole sistemazione fra altri umani (e possibilmente cani).
Perchè la terza sarà prendere alla casa famiglia un'altra randagia precedentemente deportata in canile.
La quarta sarà avanzare nell'opera di formazione riguardo la conoscenza dei cani nella zona del nostro intervento.
La quinta sarà sperimentare forme di convivenza libera fra umani e cani.
La sesta sarà correggerla nel percorso e fortificarla; la settima sarà difendere l'idea che un cane non può stare bene solo dietro le mura di un canile o di un appartamento.
Vorrei che fosse creato per loro un nuovo tempo e un nuovo spazio.
Vorrei che i cani non fossero infatti nè animali 'da compagnia' nè d'affezione.
Sogno per loro - per noi - che nessuna funzione che ci viene strumentalmente attribuita faccia dipendere da circostanziali svilluppi la possibilità di essere felici.
E lo vorrei per tutti gli animali che oggi sono 'cibo', 'divertimento', 'indumento', 'cavie'.
Lo vorrei per tutti quanti, animali umani, vittime o carnefici compresi.
Alcuni di voi diranno che sono fuori dal mondo... che la libertà è una suggestione.
Io ribatto che Lillimè è qui con me e ci sentiamo più veri di prima.
C'è molto da fare per entrare nei problemi e cambiare le cose.
Ci sono mondi da scoprire. Tappeti ovunque da rimuovere.


Davide e Lillimè

    " Noi ci sentiamo vivi, felici e liberi più che mai !! "









"Un giorno un amico mi disse che credeva ci fosse un profondo significato per noi umani, nel morire degli altri animali..."
RICORDI CHE NON SE NE VANNO


Ricordo quel giorno del 2002.
Maya... chemmmatta!!!... che testa fra le nuvole...

Mi chiedono di dare una mano per le grandi pulizie annuali al canilaccio di turno. I pochi volontari hanno ottenuto il via libera per l'operazione dal padrone della struttura. Un canile con i box disposti a forma di cavallo. Una colata di cemento circolare. Una piattaforma di escrementi e piscio che sottointende decine e decine di divisori in rete metallica. Una cinquantina almeno di anime perse là dentro. Soprattutto cani 'da caccia', perchè il boss è un cacciatore. Cosi' avido da tenersi lì -a disposizione- una trentina di cani pronti ad uscire solo per il momento della 'battuta'. Negli spazi aperti un ombrellone, un tavolo, sedie e una panchina... dove appoggiare il culo che si riempie ogni qualvolta si riuniscono combriccole di 'amici' cacciatori che tornano con le mani piene delle loro 'amate' prede.
Gli altri cani o sono 'scarti' perchè non 'buoni' a cacciare o sono incredibilmente appoggiati lì dalle associazioni animaliste che cercano disperatamente stalli. Incredibilmente perchè in quelle condizioni più che di stalli, bisognerebbe parlare di stalle. Incredibilmente perchè sovente restano lì a vita, vittime di false speranze e di 'esauriti' impegni per tirarli fuori di là.
Tra gli scarti 'da caccia' ce ne è una che salta all'occhio subito, anzi direi che mi salta irrimediabilente alle orecchie.
<<AAAAAAAAA-AAAAAAAARRRRRRRR....>>
E ancora <<AAAAA----AAAAAAAAAAAAAAARRRR>
E avanti così, per tutto il mio unico pomeriggio là, da lui, da lei, da loro.
Vado a guardarla, ma lei non mi vede.
Occhi semi chiusi, denti sulle sbarre, sangue per terra che si mischia allo zozzume.
Interminabili lamenti che si fanno strada dentro di me... irrimediabilmente dentro di me.
Non c'è modo di calmarla. Lei sa non accettare l'inacettabile.
Vedo una ragazza che la saluta con dolcezza. Nove anni dopo diventerà mia moglie.
Le ricordo insieme per quell'attimo incompiuto e per gli anni che nasceranno a venire.
Infatti quei lancinanti lamenti non li dimentico. Tre anni dopo infatti mi danno in gestione un canile. Ci vado a vivere coi miei cani e familiari. Ora ho la possibilità di prendere quella sofferente segugia, che nel frattempo l'anno prima era stata spostata in un altro canile. Con risultati identici. La gabbia lei proprio non se la sa spiegare.
<<E perchè dovrebbe mai!!>>. Dico due anni dopo, sentenziando, a Rebecca, la stessa ragazza di cui raccontavo prima. Mia nuova collega nel nuovo canile.
Ricordo come la misi nel trasportino e di come, arrivati nella nuova destinazione, mi diressi al campo antistante all'ennesima fila di box, sta volta per liberarla. Ero solo, solo con lei. Mi sentivo come in quei documentari in cui giunge l'attimo della felicità. Mi sentivo come se stessi per liberare un uccellino a cui i cacciatori avevano ferito un'ala.
Aprii.
E Maya -questo era il suo nome- volò via.
<< AAAAAAAAA------AAAAAAAAAAAARRRRRRRRRRRRR>>
Un urlo che ripeteva le stesse sillabe per lei antiche. Come se nell'aria permanessero le delimitazioni impresse nella sua mente dall'acciaio.
Un urlo che coi secondi però già si smorzava nel non trovare impedimenti insuperabili.
E mentre scalava, come funziona con la frizione e l'accelleratore, Maya apprendeva come si compie l'agognato decollo.
Volava, volava. E io con lei, come lo spirito che si stacca in quelle ripetute scene idilliache finali dei documentari.
Sembrava davvero che le zampe davanti poggiassero finalmente su pezzi di cielo.
Lei così magra, così leggera, così impossibilitata a rincorrere quegli uccelli che volevano raccogliesse a caccia. Così impossibilitata forse perchè -amavo pensare in quel momento nel momento...  - così affiliati nell'animo a lei.
Un giro del campo. Due, tre.
Maya non si fermava mai.
Non ci crederete, ma non si fermava talmente mai che ad un certo punto non potei fare a meno di preoccuparmi. Quella bellissima e affascinante matta come nessuno mai, confermava di non avere limiti. Confermava che la sua mente godeva di spinte sconfinate. Oltre che il metallo sembrava le risultasse incontenibile la vita stessa. Vita che aveva saputo essere con lei così impostata, così castrata, così inscatolata fino ad ora.
Capii al volo che Maya non ne sarebbe facilmente uscita da quelle sensazioni che aveva incamerato nel suo mancato senso della misura.
Si fermò dopo tre giorni di atterraggi che seguivano a decolli e di decolli che seguivano atterraggi. Quel campo poco vissuto, perchè là i cani delle gabbie del canile non ci potevano andare, era diventata la sua pista personale. Dove i 'miei' cani, sempre così incollati ai miei piedi, si fermavano distanti a guardare con sospetto la nuova alata coinquilina.
Non l'hanno mai sopportata granchè... devo ammetterlo poichè loro me l'hanno giurato di continuo. <<Ma proprio sta qui ci hai portato??>>.
Quando Maya iniziò col tempo a frequentare le zone del nostro condiviso passaggio, gli altri cani non perdevano l'abitudine -faticosamente negli anni acquisita- di ricordarle che nel quieto convivere esistono delle distanze da tenere. Ma Maya le distanze non le arrivò a conobbere mai. Le ha inseguite, probabilente addirittura desiderate, ma conosciute mai. Costituivano la sua terra promessa e irraggiungibile. La meta dei suoi forsennati viaggi oltre l'atmosfera terrestre. Ma sulla Terra non scese definitavente mai. Sognava di essere un uccellino. Quella volta che la buttarono nel bosco a inseguire gli spari credo sia stata rapita dal volo di un uccellino in fuga. Me la immagino, con immenso amore, guardare rapita dalle sue fessure oculari, verso sù. Oltre i pallini sparanti dei fucili, oltre i rami scossi, oltre i richiami rudi dei cacciatori, oltre le cattive maniere riservategli certamente dopo i suoi totali insuccessi. 
-solo con la lastra di questo martedì, ho saputo che anche Maya stessa fu impallinata-
<<Ma insuccessi di chè?>>, si chiedeva Maya. Lei voleva fuggire come l'uccellino. E lo voleva senza sapersi spaventare, perchè Maya non aveva paura nè di volare nè di cadere. Aveva demandato l'idea della paura al dopo. Lei viveva nell'adesso e nell'ora. Ora aveva l'idea di spiccare il volo...e di lamentarsi per tutto ciò che glielo poteva impedire.
Quante volte calpestava i cani, e me. O saliva sulla tavola, alla ricerca del carburante da non gustare, della benzina necessaria al volo. Che smania di vivere e di volare...
Il guinzaglio lo odiava. Daltronde come si può mettere il guinzaglio ad un aspirante volatile. Lei si ribellava al solo pensiero di dover ammettere che era un cane.
Ogni novità la incupiva. Riprendeva a fare <<AAA---AAAAAAAAARRR>>. Come se si fidasse solo di noi che l'avevamo liberata e non fermata. Con una riconoscenza infinta proiettata lungo l'illimitato cielo.
Una volta, in preda al panico della fastidiose novità, prese in bocca il freddo palo di ferro del cestino dei rifiuti che s'infrapponeva ai suoi intimi desideri.
Molte volte aveva a portata di bocca solo il muro, da cercar di mordere e leccare, fino al sopraggiungere del limite invalicabile dello stupidostipite.
Un'altra volta staccò la targa di una volontaria che veniva a dare da mangiare ai maiali che avevamo lì (una volta salvati dal luogo dove anche le loro carni morte si dovevano andare definitivamente ad appoggiare, sul duro e lavabile pavimento del mattatoio).
Maya era proprio il cane che non si sarebbe tenuto nessuno. Questo me lo devo riconoscere. Quando andai via anche da quel canile, chiesi a mia madre se poteva tenere Maya qualche giorno a casa sua... finchè avessi trovato un posto dove finire a vivere. Bene... tornò il giorno dopo. Insieme a mia madre che, sconsolata, allargava le braccia già nel varcare il cancello davanti la mia ex casa di 'amianto del povero-sfigatissimo custode'.
Io sorrisi, perchè in fondo e in superficie, lo sapevo. Come si può mettere in una casa una segugia che si crede uno sparviero?!? E, a ripensarci ora, meglio così perchè se fosse arrivata alle finestre di quel viaggio poteva farne un'impresa irripetibile. A meno che mia madre avesse trovato il modo di attaccarle delle funzionanti ali. A quel punto sono certo che sarebbe tornata da me. Perchè Maya voleva sì volare, ma aveva conosciuto anche il piacere dell'avere a disposizione un nido.
E quante volte si è fatta male da sola...
Ricordo quella volta che s'infilò nelle biciclette accumulate dal volontario "raccatta-tutto-dalla-discarica" Matteo. Da quell'ammasso di ferraglia arrugginita uscì con in testa un pedale e sulla schiena una catena. Ci mancava avesse in bocca un manubrio e nelle orecchie un fanalino, che quella pazzoide sarebbe riuscita definitivamente a partire. Dovevo chiamarla Icara. O forse Acaro. Per lo stress del non completo volare Maya aveva una pellaccia di poco pelo forforoso, spellacchiata a macchie e sempre arruffata dal vento pieno di polvere che sollevava!!..
E quella volta che la portai in toelettatura... la tizia del lavaggio perentoria mi disse - nonostante fossi rimasto lì lungimirante ad aiutare - << Questa fuori di testa qua non ce la voglio più vedere>>. (Non vide più neanche me e i miei soldi!). Ma anche lì, perchè bagnare col sapone le piume di un accanito cane volante con il becco e gli artigli ormai modellati sul progetto del sogno di diventare uno sparviero?...
Ma quando la cagna Zingara le rifilò un morso che le staccò di netto un pezzo di orecchio destro... come si offese Maya. Le restò l'orecchio a forma di pinna di squalo... questo non lo poteva sopportare... di pinna!! Ancora un richiamo ad un'avulsa natura... Borbottò sbattendo la testa, come non ci potesse credere (sto romanzando troppo qui - mi sa tanto che Maya quella volta sentì più che altro un gran male...). Eppure Zingara - lo riconosco - si era presa la responsabilità di alzare più volte la paletta rossa per dirle che la doveva piantare di correre all'impazzata sopra le sue cose per ostinarsi a decollare. Ma Maya non demordeva mai. E gli altri la mordevano così spesso, ma sempre meno convinti e volentieri. Solo quella volta lì seriamente. Poi, passando gli anni, con sempre meno interesse a stabilire, consci che non potesse capire che un uccello proprio non lo era.
Maya una volta scappò, mi stavo dimenticando del particolare che rischiò di non farmela così profondamente amare. Scappò da quel canile 'di mezzo' dove stette un anno prima che con me. Scappò, come in quel posto capitava ad un sacco di cani coraggiosi: scappò per star via un mese e mezzo. Il suo primo periodo di libertà e auto-conquistata per giunta! Rebecca la cercò ininterrottamente. La vedevo arrivare in canile con una pila di volantini e il rotolo di scotch sui polsi, per incontrarsi con chi qualche volta l'accompagnava. Io non andai mai. Avevo la testa del tutto sepolta sotto la terra dei cani terrestri. Ognuno con la sua piccola-grande storia di aspirazioni miste dolore.
Un bel giorno Maya fu trovata. Qualcuno l'aveva avvistata incidentata e aveva chiamato il numero appeso col volantino.
Leggenda narra che Maya in quelle settimane era riuscita a volare, precipitando però a mille all'ora contro uno sterodaptilo di lamiera che solcava le basse quote del cielo annerito di Rho. Di chillometri ne aveva percorsi tanti. Ma, acciaccata e denutrita da quell'esperienza da inesperta ancora, Maya la vidi tornare fra le voci trionfanti nella sua prigione-canile. Anche io ero felice. Ma mi son chiesto poi che altra brutta fine Maya doveva comuque fare. Per fortuna, tutto quel chiedersi e sognare su Maya, un esito felice - in questi nove anni di convivenza finiti l'altro ieri - lo posso testimoniare.
Ha avuto un ictus domenica sera ed è entrata in coma lunedì. Ha dormito '30 ore per la morte' fino a martedì sera. Oggi è giovedì. Ieri mercoledì ho pianto poco con Rebecca. Ma abbiam viaggiato tanto col pensiero.
Maya è volata semplicemente via. Un modo alla fine l'ha trovato.
E' stata un'ascesa lenta, graduata, prolungata, gentile (e arrivati al punto morto 'aiutata', con le mani unite a spingere dal basso per l'ultimo volo)... oltre la linea che divide la terra dal cielo e dal mare. Io la sento nel fuoco dei miei ricordi che infiammano ora e per sempre il cuore.
Indimenticabile Maya...
Tu, che nessuno ti avrebbe potuto tenere, mi hai insegnato tantissimo sulla vita e ancor più sulla morte.
Mi aiuterà per quando volerà via la mia Ivyna. Di questo sono terrorizzato.
Ti porto con me, Maya. Mi mancano i tuoi occhi da pulire mattino e sera. Mi manca ridere in silenzio fra me e me nel farti da lavavetri per i tuoi finestrini passati dalla tempesta quotidiana che sollevavi.
Vi racconto tutto questo perchè è una storia che trovo meravigliosa e perchè lavoro ancora in un altro canile ancora e mi sembra importante dirvi che è molto possibile che qualcuno sia lì in attesa, dietro le rigide sbarre 'fissate', per cambiarvi la vita.
Non potete sapere come ve la può cambiare, proprio perchè va cambiata.
Che un cane-sparviero come Maya mi insegnasse come sa essere leggero e libero morire... io proprio non me lo aspettavo e non me lo potevo immaginare.
L'ho solo osservata in quel migrare constantemente oltre quello che c'è.
Oltre l'amore incasinato che provocava al suo incessante venire e andare-andare e venire.
Lei nell'andare è rimasta.
Io, nel rimanere, cerco adesso di abbandonarmi più che posso a braccia aperte a quell'inenarrabile processo di separazione - dall'unione - che è la vita.

Davide,

che si sente un comune gabbiano che rovista nella spazzatura che gravita vicino alla terra e al mare







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