giovedì 16 gennaio 2014

ESSERE PREDA


" (...) Il coccodrillo attacca la canoa con violenza. Le aggressioni ripetute dell'animale rischiano di capovolgere l'imbarcazione, il che conduce Plumwood a saltare per guadagnare la riva. 
Il coccodrillo, però, compie un balzo, l'afferra con le fauci fra le gambe e la piroetta "nella soffocante oscurità delle acque". Plumwood continua descrivendo una serie di ripetute giravolte mortali che il coccodrillo le fa compiere. Ella sopravvive a diverse di queste abbastanza a lungo per provare di nuovo a scappare e a cercare di raggiungere la riva; ancora una volta, però, viene ricatturata dalle fauci del coccodrillo e trascinata sott'acqua. 
(...) lotta strenuamente, cerca di colpire l'animale agli occhi, (..) prova ad afferrare i rami della vegetazione circostante, (...) finalmente riesce a  sottrarsi alla presa del coccodrillo (...). Nonostante sia gravemente ferita, riesce comunque a remare verso la salvezza e alla fine viene recuperata da una squadra di soccorritori. 
(...) Ci sono voluti dieci anni perchè Plumwood trovasse modo di raccontare questa storia dal suo punto di vista, storia molto differente da quella della narrativa del mostro maschilista. 
In essa racconta la "riduzione scioccante" subita nel corso della quale si era trasformata da soggetto umano consolidato a pezzo di carne. (...) Ella mostra come tale riduzione le abbia permesso di comprendersi e di cogliere in maniera differente la propria collocazione dentro la natura e tra gli animali. (...) 
Nel momento stesso in cui il coccodrillo l'afferra e la getta in acqua, la prospettiva di Plumwood scivola, da dentro se stessa e da sopra, verso un mondo di indistinzione, dove si rende conto
di essere carne:
"In quel lampo, intravidi per la prima volta il mondo dall'esterno, un mondo non più mio, un paesaggio desolato ed irriconoscibile, fatto di cruda necessità e indifferente nei confronti della mia vita e della mia morte."  (...) Il pensiero: "Non è possibile che stia accadendo a me, io sono un essere umano, sono tutt'altro che cibo", era parte di questa mia estrema incredulità. 
(...) Plumwood non pensa la propria morte in quanto tale, (...) 
al pari di tutti gli altri animali, diviene preda e carne, (...) tuttavia, nel momento stesso in cui si sente preda di un altro animale, comprende che questo non è il suo modo esclusivo di esistenza; nel corso dell'aggressione, ella rivendica di essere più che carne, resistendo strenuamente all'attacco.
(...) umani e animali sono, al contempo, carne e più che carne."

M. Calarco, "Essere per la carne: antropocentrismo, indistinzione e veganismo", 
trad. dall'inglese di Massimo Filippi, 
Liberazioni n. 15






domenica 12 gennaio 2014

di acqua o di neve



sarà che la mia consistenza è
d'acqua
(o di lacrima)
(o di neve)
ma
quando mi guardi
scivolo
dentro di te
nel mare infinito
dei tuoi occhi


venerdì 10 gennaio 2014

zoo di Londra, 1880




   (Repubblica.it)

Tenerezza


" (...)  il cane fece due giri su se stesso e si stese acciambellato.
  L'uomo si tirò le lenzuola fino al collo, tossì due volte 
e poco dopo entrò nel sonno. 
  Seduta nel suo canto, la morte guardava. 
  Molto più tardi, il cane si alzò dal tappeto e salì sul sofà.
  Per la prima volta la morte seppe cos'era avere un cane in grembo."

   Josè Saramago, Le intermittenze della morte, 2005





Voce



risuona
assordante
la voce
di tutti
i viventi schiavi
e porte e sbarre e catene
non la possono
trattenere
la voce
pretende
ciò che è suo
fa esplodere
muri di silenzio
le pietre
diventano valanghe
la luce 
stritola
ogni notte
la voce
prende 
e trascina
e toglie
per sempre
la pace





mercoledì 8 gennaio 2014

Dal carcere di Breslavia, dicembre 1917





" (...) Ahimè, Sonička, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’esercito, zeppi di sacchi o vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra... I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto «vae victis »... Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avvezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano.
Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo in- vestì chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. « Neanche per noi uomini c’è compassione » rispose quello con un sorriso maligno e battè ancora più forte... Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava... Soniéka, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava,guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta... gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime — erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui... questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e... le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi..."

 Rosa Luxemburg    (Lettera a Sonja Liebknecht)

martedì 7 gennaio 2014

Mocha Dick


Il capodoglio tanto temuto per la sua ferocia, 
famoso per aver tenuto testa per decenni ai balenieri di mezzo pianeta, 
recava su di sé i segni delle infinite lotte per sopravvivere.





Non ho mani
per strappare gli arpioni 
dalla mia schiena.
Anche ora
che il dolore tace,
una lunga coda 
che non m'appartiene
mi insegue.
La sento sferzare le onde,
la trascino
con me negli abissi.
Straniero
a me stesso
e ai compagni,
il nemico 

per sempre 

nei fianchi.